domenica 8 ottobre 2006

I capelli si staccano e rimangono lì. Come a firmare un'opera d'arte, come a sottolineare una presenza, passata e presente. Li ritrovo in macchina e sui vestiti, e non sono i miei. Sono capace di ammirarli, di studiarli uno per uno e poi raccoglierli con mani romantiche. I capelli sono ricordi di un istante, colori di una tavola. Sottili e fragili, eppure determinati, determinanti. Ogni ritrovamento accende un istante di tranquillità, e su ciascuno di quei capelli provo indegnamente ad arrampicarmi, in una sicura precarietà. Quei capelli non profumano ma rievocano un profumo, ed è strano osservare come un capello solo sia inodore, e mille invece dal nulla scatenino un potenziale inebriante. Quei capelli sono miei, res solo cedit si leggerebbe su un manuale di diritto, acquisiti in forza di una legge celeste, su di me depositati e quindi miei. E chi crede che io stia tessendo lodi ai capelli defunti cade in errore: in certe condizioni tutto diventa un mezzo tendende all'eterno precario che posso accarezzare. Qui il miracolo: godere di tutto il godibile, realizzare di non poter desiderare nulla in più, eppure sapere di non esserne padroni, comprendere che tutto può dissolversi in un istante. Diamanti, così duri eppure così fragili...
Potrei non aver voluto dire nulla, o, semplicemente, con la bocca aperta è difficile parlare. Spazio allora a ciò che non può sentirsi, spazio ad ogni palpito regalato e ricevuto in regalo. I muti non possono parlare e sono capaci di amare. I paraplegici non possono scrivere e sono capaci di amare. Muto e paraplegico per qualche istante, ma all'ennesima potenza. Perchè di fronte a certe manifestazioni, semplici manifestazioni d'esistenza, a nulla serve esprimersi, sapersi esprimere, potersi esprimere...